Il vero amore non uccide

Ho scritto questa storia molti anni fa, in prima liceo, ed è sempre rimasta lì in disparte. È passato il tempo, ma non è mai passata quella violenza che ogni volta colpisce noi donne allo stomaco, sempre con la stessa forza. Il vero amore non uccide, il vero amore non ti fa sentire sbagliata o inadeguata. Il vero amore ti permette di essere libera.
Educhiamoci al rispetto e al sentimento. Amiamo prima noi stessi e allontaniamoci dalle violenze altrui.

Spero che questo breve testo vi faccia emozionare e riflettere.
Ovviamente se vi va di lasciare un commento, un pensiero o un’esperienza saremmo felicissime di leggervi.
Buona lettura.

Il vero amore non uccide.

“Potrebbe darmi un documento?”
La mano iniziò a eseguire gesti frenetici, imprecisi, mentre la signora davanti a me cercava nella borsa, tra una maglietta e una spazzola per capelli, che rischiava di cadere dalle sue mani tremanti. Il volto era in parte coperto dai capelli, ma era ben visibile il labbro rotto, gonfio e arrossato, come la spalla che si stava scoprendo a causa della larga maglia strappata che le scivolava nel suo caotico cercare. Il bambino, al suo fianco, si guardava intorno, spaesato. Aveva due grandi occhi scuri e gonfi, che passavano rapidamente dalla sua mamma, alla stanza, a me, per poi tornare sulla donna che appariva sempre più nervosa. Copiose lacrime iniziarono a cadere dai profondi occhi bui di disperazione, attingenti direttamente dal suo cuore.
“Io… io… non riesco a trovare… credevo di averlo preso… non so proprio… mi dispiace…” I singhiozzi interruppero definitivamente quel balbettare confuso e disperato. Mi alzai per aiutarla e la donna si ritrasse di un passo, alzando il braccio per schermarsi.
“Si calmi, tranquilla. Non fa niente, venga con me. Qui non le succederà niente.”
Mi avvicinai più lentamente, con le mani aperte, e le cinsi piano le spalle con il braccio. Sentii i muscoli di lei rilassarsi e il suo pianto nervoso divenne una vera e propria richiesta di soccorso, un bisogno ormai incontenibile di aiuto.
“Vanessa, vado ad accompagnare la signora, stai tu all’ingresso.”
Qui, al centro antiviolenza, ne avevo viste tante, troppe come lei. Donne ferite, che finalmente avevano avuto il coraggio di fuggire dalle violenze che quotidianamente subivano. La condussi gentilmente in una delle stanze d’emergenza per chi chiedeva asilo, avevamo qualche letto disponibile per quelle che a tutti gli effetti potevano essere definite profughe.
“Questa camera ha due posti liberi, potete stare qui. Il bagno è in fondo al corridoio. Perché non si rinfresca un po’?”
Gli occhi scuri, ora arrossati dal forte pianto, sembravano ringraziarmi e supplicarmi allo stesso tempo. Quella che mi ritrovavo di fronte era una donna giovane, aveva sicuramente meno di trent’anni e il suo bambino poteva averne al massimo cinque. Non c’era modo di abituarsi allo sguardo di tutte coloro che varcavano quella soglia, ogni volta era lo stesso dolore.
“Di qualunque cosa abbia bisogno io sono qui. Se vuoi parlare o, non so… qualunque cosa. Chiamami, sono qui per te.”
Le sorrisi, cercando di confortarla e invitarla ad aprirsi.
“Grazie, ora metto il bambino a letto. È molto tardi.”
Con le guance ancora umide entrò in silenzio nella camera e io tornai all’ingresso.
“Come sta?” Vanessa mi guardò preoccupata.
“Come tutte le altre.” Mi lasciai andare sulla sedia sospirando.
“Ci si abitua mai a questa sensazione?”
“A cosa ti riferisci?”
“Ogni volta che una di loro entra e la vedo, distrutta, spezzata… sento dentro un peso incredibile e fa male. Mi sembra che non facciamo niente, stiamo qui ad aspettare che ne entri un’altra. E un’altra.” Guardai Vanessa, era giovane ed era qui da pochi mesi. Aveva le lacrime agli occhi.
“No, non passa mai. Però non credere che non facciamo niente. Noi per quelle donne siamo un salvagente che le permette di non annegare, che le offre la possibilità di rimettersi in piedi. Siamo qui per lasciare che condividano il loro dolore e alleggerire il loro peso. Fa male, ma è la cosa più importante che tu possa fare.”
Vanessa fece un cenno e iniziò a preparare le carte da compilare per la nostra nuova ospite.

Passò quasi un’ora, l’orologio segnava le 2:40, quando vidi avvicinarsi titubante Marta, la donna che era entrata con il bambino.
“Ha bisogno di qualcosa?”
“Ehm… io… potrei avere un tè caldo?”
“Certamente. Venga con me, ne prendo volentieri uno anche io.”
Erano ormai più di cinque anni che lavoravo al centro, ho incontrato centinaia di donne, ho visto ferite di ogni genere: fisiche, psicologiche… e sapevo che il primo passo importante per una donna era parlare. Parlare di lei. Condussi Marta nel salotto ricreativo, era arredato con poche poltroncine, un paio di tavolini, una TV spenta e un distributore automatico da cui presi il tè che posai sul tavolo. Mi sedetti di fronte alla donna e le sorrisi dolce, mentre stringevo il bicchiere per scaldarmi le mani. “Vuoi parlare?”
Rimase in silenzio, soffiando piano sulla bevanda. Dopo pochi secondi un’amara lacrima si stava confondendo con la calda sostanza tra le sue mani.
“Va vanti da molto?”
“Non lo so… Non so neanche come sia iniziato tutto. Forse dopo la nascita di Michele, da quello schiaffo dopo un litigio. Può un padre essere geloso del proprio figlio?” I suoi occhi si alzarono cercando una risposta.
“Le persone sono capaci di cose tremende e incomprensibili, purtroppo.”
“Io davvero non lo so… so solo che poi è successo sempre più frequentemente, per motivi sempre più futili. E io mi sono ritrovata così di punto in bianco.”
“Queste cose non accadono mai di punto in bianco. Pensa bene. Come si comportava con te?”
“… io…” il suo sguardo si perse lontano per qualche minuto. “Era geloso, sì, ma aveva paura di perdermi. Non voleva che mi allontanassi da lui. Quando facevo tardi a lavoro si arrabbiava, a volte veniva fino al negozio. Dopo che rimasi incinta mi impedì di tornarci. Pensavo lo facesse per noi, per me e per Michele. Pensavo che il suo amore gli suggerisse di farmi rimanere vicina alla famiglia, perché loro avevano bisogno di me.” La voce le mancò, rantolò un respiro affannato e, di nuovo, le lacrime caddero. La lasciai in silenzio, ascoltando il sibilo che emetteva respirando. Le strinsi una mano tra le mie e le porsi un fazzoletto, attenta ad ogni gesto che potesse lasciar intendere un crollo.
“Come ti ha ridotta così?”
“Lui… lui si è arrabbiato. Mentre lavavo i piatti me ne è scivolato uno e si è rotto. Mi ha urlato contro “cosa hai fatto?! Sei una buona a nulla!” e gli ho risposto che era solo un piatto, ma che non aveva importanza, era molto vecchio e ne avevamo altri. Si è infuriato, è venuto verso di me e mi ha tirato uno schiaffo.” Si sfiorò il labbro gonfio con la punta delle dita. Con l’altra mano si stringeva il ventre. “Ho perso l’equilibrio cadendo e ho sbattuto contro il marmo della cucina e, mentre ero in terra, ha iniziato a prendermi a calci. Urlavo, gli supplicavo di smettere, ma lui urlava più di me. Mi insultava, ma non riuscivo neanche a capire cosa stesse dicendo. E intanto continuava a colpirmi, sempre più forte. Mi tenevo la testa e urlavo. Michele deve essersi svegliato per il rumore e si è affacciato al corridoio. Non so quanto abbia visto, non ero in grado di vedere oltre il mio sangue e la sagoma di… lui che continuava a colpirmi. Non mi sono accorta di niente. Poi mi ha chiamata, piano. Non l’ho sentito. Ho solo sentito che erano cessate le botte. Poi l’ho visto. Ma suo padre era già davanti a lui, furioso. Io volevo alzarmi, volevo fermarlo, giuro! Ma il mio corpo non lo faceva, restava lì fermo, mentre volevo correre da lui, e invece stavo lì a guardare quella scena orribile.” La sua voce si spense e si strinse ancora di più in se stessa. Il respiro era sempre più rumoroso. Poi la sua voce riprese, più bassa, spezzata. “Lo ha picchiato. Gli ha tirato uno schiaffo, lo ha fatto cadere in terra e gli ha tirato un calcio, forte. La ha sbattuto contro al muro e lui è rimasto lì, immobile. Sembrava morto. Allora ho urlato, più forte che potevo, e quella bestia è tornata da me. Ho visto Michele alzarsi e gli ho ordinato di andarsene in camera sua. L’ho visto correre via. E lui mi ha picchiata, picchiata ancora. Prima di riuscire ad alzarmi da terra è passato molto tempo, lui era andato a dormire e io ho fatto le valige.”
“Nessuno è venuto a vedere cosa stava succedendo? Non avete dei vicini?”
Un sorriso amaro e un sobbalzo scossero Marta. “La gente non vuole vedere quello che gli succede intorno. Anche se bussi alle loro porte implorando aiuto.” La donna si piegò a metà scossa da una fitta di dolore.
“Cosa succede? Stai male?”
“No, no. Solo qualche livido. Sto bene.”
“Non devi temere di chiedere aiuto. Adesso sei al sicuro e qui lui non può farti niente.”
“Ho paura…” Il tono soffocato della sua voce esprimeva tutto il terrore che provava. Gli occhi sgranati e irrequieti non si fermavano un attimo. Le mani, paonazze, sudavano rendendo la pelle lucida.
Cercavo di darle conforto con parole dolci, le promettevo una nuova vita, migliore. Per quanto sarebbe stato difficile ricominciare, lei ce l’avrebbe fatta. Ogni donna, quando ha un motivo per vivere, ce la fa. E lei aveva Michele.
“Ho permesso che picchiasse il mio bambino! Il mio bambino!” Il tono di voce si alzò, iniziò a incolparsi e a incolparlo. “Come ho potuto farlo? Come ho potuto lasciare che accadesse?? Come?!” Il grido disperato si troncò da un respiro più forte. Spalancò gli occhi e crollò davanti a me, stringendosi il corpo. “Aiutami…” Mentre cercavo di capire come soccorrerla chiamai più forte che potevo Vanessa, “chiama un’ambulanza! Subito!!”
Mentre cercavo di parlare a Marta, la vidi perdere coscienza. Tentai le prime manovre di rianimazione che ci avevano insegnato, mentre sentivo Vanessa rispondere alle domande dei medici.
“Dai Marta! Fallo per tuo figlio, fallo per Michele! Forza svegliati!”
Passarono dieci minuti, furono i più lunghi della mia vita, le lacrime ormai rigavano il mio volto e mi annebbiavano la vista. A stento mi accorsi delle sirene che si fermarono davanti al centro e degli uomini che accorsero. Mi allontanarono per portar via la donna.
Seguii i medici in ospedale, guardavo Marta ormai pallida, i lividi e le ferite sul suo corpo sembravano divenire più marcate ed evidenti ogni minuto che passava.

Mi ritrovai a passeggiare ansiosa tra i bianchi corridoi, mi riempivo di quell’odore pungente di disinfettante e nella mia testa risuonavano le parole di Vanessa “non facciamo abbastanza…”. Tra tutto quel candore il medico con il camice verde sembrò così irreale che dovetti fissarlo finché non mi si parò di fronte per annunciarmi la morte della giovane donna, di quella madre disperata. Marta era morta. La causa: emorragia interna dovuta dalla lesione della milza. Ovviamente causata dalle percosse subite. E io non mi ero accorta di niente.

Tornai al centro, incolpando me stessa, e ogni uomo che riduceva così la persona che tanto diceva di amare. Dovevo aggiungere un altro certificato di morte tra i molti altri.
Un altro nome cancellato da quella lunga lista.
Un’altra telefonata agli assistenti sociali. Un altro bambino privato della sua fanciullezza e dell’amore dei genitori, vissuto nel terrore.
Un’altra notte da trascorrere sveglia chiedendomi perché, chiedendomi se un giorno tutto questo troverà la sua fine.

Chiedendomi quando capiremo che il vero amore non uccide.

Veronica S.

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